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lunedì 10 Febbraio 2025

30 anni fa: l’addio ad Hunt

La storia avvincente di un campione molto originale e fuori dagli schemi –

di Carlo Baffi – Immagini © Raul Zacchè/Actualfoto

Se n’è andato il 15 giugno del 1993 a soli 45 anni, stroncato da un infarto e da una vita di eccessi. Parliamo di James Hunt, pilota automobilistico di Sua Maestà e Campione del Mondo di F.1 nel 1976. Un titolo soffiato a Niki Lauda, dopo una stagione palpitante e drammatica divenuta il soggetto di un film di successo come “Rush”, uscito nel 2013 per la regia di Ron Howard. Ad Hunt il talento non mancava, ma era decisamente più votato alla sregolatezza fatta di fumo, alcool, donne ed altro. Un eroe dello sport scomodo e dannato al pari di George Best, il fuoriclasse nordirlandese del pallone, spentosi a 59 anni presso un ospedale londinese dopo un’esistenza alquanto spericolata. Tanto intelligente quanto originale, capelli lunghi, immancabile sigaretta in bocca e scarpe da pilota tagliate sulla punta, Hunt fu una vera e propria icona di un motorsport ruspante. Era capace di presentarsi agli appuntamenti di gala indossando uno smoking e calzando scarpe da tennis, oppure di girare in jeans, maglietta e piedi rigorosamente scalzi come gli hippies di quel tempo. James Simon Wallis Hunt nacque il 29 agosto del 1947 in una clinica di Sutton nel Surrey, secondogenito di una famiglia numerosa. Suo padre faceva l’agente di cambio. Ad otto anni proseguì gli studi al college mettendosi in evidenza in discipline sportive quali il tennis, la corsa campestre ed il racquets, un gioco tipicamente d’oltre Manica simile allo squash. Prossimo all’adolescenza, James decise di fare il medico, ma ecco la folgorazione improvvisa. Era il 1965, quando per festeggiare il suo diciottesimo compleanno varcò i cancelli dell’autodromo di Silverstone, il tempio del motorsport per eccellenza, insieme ad alcuni amici per assistere ad una gara. Ne rimase così affascinato che decise di dedicarsi anima e corpo al mondo delle corse. Di colpo era passato da un futuro in camice bianco e stetoscopio, a quello con tuta e casco. Una scelta non certo condivisa dai genitori contrari che il figlio svolgesse le più svariate professioni al fine di raccogliere il denaro necessario per correre. Fece di tutto: dal portantino in ospedale, al guidatore di ambulanze fino al gelataio. Tentò pure come conducente di autobus, ma venne scartato in quanto troppo alto. I suoi esordi nelle competizioni lo videro cimentarsi con una Mini per poi passare alla Formula Ford al volante di una Alexis comprata a rate.

Debuttò a Snetterton il 26 agosto del 1968 senza acuti, ma subito dopo grazie ad un’evoluzione della monoposto si piazzò secondo e successivamente arrivò la prima vittoria, per la precisione a Lydden Hill nel Kent. Nel ’69, quell’hobby iniziale divenne sempre più una vera e propria professione con il salto in Formula 3. Iniziò su una modesta Lotus 59 per poi passare ad una March 713, però la sfida forse più ardua era la caccia agli sponsor per colmare il budget e completare la stagione, visto che a volte i premi di partenza non bastavano. Giornate sotto la tenda, ricambi spesso insufficienti e pure il rischio di subire il furto di benzina dai serbatoi durante la notte, questa era la vita sui campi di gara. La F.3 d’oltre Manica era comunque una serie molto quotata con piloti emergenti quali: Fittipaldi, Lauda, Pace e Williamson (destinato ad una tragica fine nel 1973). Qui oltre che per le doti velocistiche, il giovane si mise in evidenza anche per l’irruenza e gli incidenti, guadagnandosi il soprannome di “Hunt the shunt”, ovvero lo schianto. Nel maggio del 1971 a Zandvoort si toccò con un avversario alla temibile curva Tarzan, la sua March si capovolse strisciando per un centinaio di metri e malgrado il cedimento del roll-bar si salvò accucciandosi nell’abitacolo. James se la cavò con uno stiramento alle vertebre e nient’altro. Rivelerà anni dopo in una sua biografia:” Il pericolo è la nube più minacciosa sul mio orizzonte, è un pensiero che mi accompagna costantemente a casa; non è qualcosa a cui pensare quando sei immerso nella carica motiva di una gara. Devi valutare le circostanze, i rischi e se valga la pena di azzardare al momento. Una volta presa la decisione, sarebbe controproducente preoccuparsene, anzi avrebbe un pessimo effetto sulla guida.” Seppur driver ufficiale, il rapporto con la March sponsorizzata dalla STP (Studebaker Test Products) si ruppe in concomitanza con il prestigioso appuntamento di Monte Carlo, ma come per incanto chiusa quella porta si aprì un cancello. Hunt entrò in contatto con Lord Alexander Hesketh, un ricco rampollo dell’aristocrazia britannica appassionato di motorsport. Un nobile parecchio eccentrico che ben si coniugava con l’indole stravagante di James. Le auto in dotazione erano le Dastle, di cui una era affidata ad Anthony “Bubbles” Horsley, un commerciante di auto che dopo timidi tentativi agonistici divenne il team manager di Hesketh.

L’avventura in F.3 non durò a lungo, scarsi risultati e tanti botti, logicamente con Hunt protagonista. A Brands Hatch in concomitanza con il G.P. di F.1, si ribaltò e finì contro il guard-rail, per sua fortuna il telaio della monoposto resistette e non si fece nulla. Peccato che nel tornare a casa ebbe un altro incidente con la sua Mini, finendo in ospedale. Nel 1972 era in Formula 2 con una March 712 dell’anno prima, esiti soddisfacenti ed introiti maggiori, una condizione che convinse Hesketh a potenziare la scuderia, buttando un occhio alla categoria regina. L’ambizione era una peculiarità del vulcanico aristocratico, a poco a poco quel sogno proibito prese corpo e l’occasione si presentò alla Race of Champions di Brands Hatch, gara non valevole per il mondiale. Venne affittata una Surtees TS9B inutilizzata che dopo una laboriosa messa a punto espresse un notevole potenziale sfruttando al meglio i pneumatici Firestone. Ne scaturì un sorprendente terzo posto alle spalle di un esperto come Denny Hulme che portava all’esordio la nuova McLaren, mentre la vittoria fu di Peter Gethin sulla Chevron di F.5000. Un exploit che invogliò ulteriormente il team a sbarcare nel Campionato del Mondo. Il grande esordio andò in scena il 3 giugno del 1973 (cinquant’anni fa) in uno dei teatri più prestigiosi del Circus, quello di Monte Carlo. Non volendo sfigurare, in quell’evento mondano per eccellenza Lord Hesketh non badò a spese. Trascorreva i momenti di relax a bordo del “Southern Breeze”, uno yacht di oltre 160 metri, muovendosi verso il tracciato su un elicottero “Bell Jet Ranger” ed una volta sulla terra ferma si spostava a bordo di una Rolls-Royce Corniche, o di una Porsche Carrera. Mirava ad essere un manager di successo, così quel lusso venne esibito anche negli altri autodromi. Sotto il tendone della scuderia c’erano tavoli apparecchiati con posate d’argento, piatti di ceramica e bicchieri di cristallo. Gli invitati, rappresentati soprattutto dal gentil sesso, pasteggiavano con caviale e champagne. Ed i rappresentanti del team vestivano eleganti giubbotti e camice bianche. Inutile dire che tutto ciò calamitò l’interesse della stampa.

Ma ritorniamo a Monaco. Hunt scese in pista con una March qualificandosi col 18esimo tempo ed in gara risalì fino ad occupare la sesta posizione, prima che a 5 tornate dal termine il motore Ford lo tradisse. Si ripresentò al Paul Ricard, scattò 14° ed entrò in zona punti, così come a Silverstone ed a Zandvoort dove colse il suo primo podio giungendo terzo: ed era appena alla sua quarta corsa in F.1. Nell’ultimo appuntamento dell’anno negli Usa a Watkins Glen chiuse secondo alle spalle della Lotus di Ronnie Peterson. Il bilancio era più che positivo: in sette G.P. aveva guadagnato 14 punti che lo proiettarono al nono posto della graduatoria piloti. I buoni risultati seguirono anche nell’anno dopo, a testimonianza che al di là delle apparenze quella giovane compagine lavorava seriamente. Abbandonata la March, esordì la Hesketh P308 progettata da Harvey Postletwhite, un 31enne ingegnere inglese (arrivato nel marzo del 1973), destinato ad una luminosa carriera. Nonostante parecchi ritiri, Hunt ottenne il piazzamento della stagione precedente, ma con un podio in più. Il vero e proprio passo avanti si registrò nel ‘75. Dopo aver iniziato con una seconda piazza in Argentina dietro la McLaren del Campione in carica Emerson Fittipaldi, James raggiunse il suo apice il 22 giugno in Olanda, tra le dune di Zandvoort. Già in qualifica l’inglese era emerso siglando il terzo tempo alle spalle delle Ferrari di Lauda e Regazzoni dominatrici della stagione. La corsa prese il via con mezz’ora di ritardo per via dell’acqua scesa in mattinata e di conseguenza tutti concorrenti si schierarono con le gomme da bagnato. Lauda mantenne agevolmente il comando finchè piovve, ma non appena la pista iniziò ad asciugarsi cambiò lo scenario ed Hunt che procedeva quarto azzardò il passaggio dalle gomme scolpite alle slick: era il settimo dei 75 giri previsti. Perse circa 54”, però tornato in battaglia iniziò a guadagnare terreno sui rivali che cambiarono gli pneumatici in ritardo. Un errore fatale che decise le sorti del Gran Premio, perché quando tutti ebbero le coperture d’asciutto, la Hesketh numero 24 spinta dal motore V8 Ford-Cosworth era al comando con un ampio margine. Vana fu la rimonta di Lauda che portò la sua 312T negli scarichi del leader a venti passaggi dal termine. Tutti si attendevano l’affondo finale dell’austriaco il quale invece preferì non rischiare ed incamerare sei punti preziosissimi nella classifica piloti incrementando il divario da Reutemann (Brabham), il suo rivale diretto nella corsa al titolo. Terzo si piazzò Regazzoni sulla seconda rossa. Il primo successo di James e della Hesketh scatenò l’entusiasmo dei membri del team e di alcuni fans inglesi giunti nei Paesi Bassi con un volo charter.

Quella che qualche anno prima poteva essere un’utopia era divenuta una bella realtà. Circondato dai giornalisti, Hunt raccontò così la sua impresa:” Una volta raggiunto da Lauda ho pensato che mi superasse all’istante, invece non ha provato nemmeno nell’imminenza del traguardo, così ho forzato cercando di staccarlo nei doppiaggi. Non l’ho distanziato, ma ho trionfato ugualmente. Penso che avrei vinto anche se non fosse piovuto – concludeva il britannico – perché nelle prove avevo fatto il terzo tempo senza andare al limite. Sentivo che ce l’avrei fatta in ogni caso.” Grande euforia anche per Lord Hesketh che ammise:” E’una grande cosa battere la Ferrari a Zandvoort con una macchina tutta inglese, Hunt è stato fantastico, nel finale ero terrorizzato ed ho provato una stretta al cuore.” E guardando al futuro rivelò:” Nel G.P. d’Inghilterra, Hunt correrà con una nuova vettura e vinceremo ancora.” Previsioni che vennero però smentite di lì a breve. Il modello 308C avrebbe corso solo gli ultimi due appuntamenti in calendario dopo una timida apparizione nel G.P. di Svizzera a Digione (non valido per il campionato) e quella olandese sarebbe risultata l’unica vittoria della scuderia di Towcester. Al suo terzo mondiale in F.1, Lord Hesketh iniziò a fronteggiare le spese sempre più ingenti. Se da un lato la scuderia era divenuta molto competitiva, dall’altro certe scelte del proprietario iniziavano a pesare. L’idea iniziale di correre con una livrea bianca, contrassegnata da due righe oblique blu e rosse sulle fiancate laterali sino alla presa d’aria e con un Hippocampus (cavalluccio marino) verde sull’avantreno superiore, sottolineava una forte identità anglosassone della monoposto, che ben si coniugava con il british style che si respirava nel box. Un vezzo romantico quello di Hesketh, che credette di farcela senza ricorrere ad un title sponsor come quelli legati al tabacco che stavano dilagando nel Circus. Per lui le priorità erano altre e quando si rese conto delle difficoltà finanziarie era troppo tardi. Pare che l’investimento richiesto per affrontare un’intera stagione si aggirasse intorno ad un milione di pounds. Di conseguenza il 1975 rappresentò il canto del cigno della Hesketh in F.1, anche se a testa alta. Oltre a Zandvoort, Hunt centrò tre podi e fu quarto nel mondiale piloti dietro a Lauda campione, Fittipaldi e Reutemann. Stessa posizione per la squadra tra i costruttori preceduta da Ferrari, Brabham e McLaren. La Hesketh, senza più Lord Alexander al muretto e Postletwhite ai box, sarebbe andata incontro ad un triste declino culminato con l’uscita di scena definitiva nel 1978. Nel ’76 il modello 308C fu venduto al magnate canadese Walter Wolff che lo impiegò subito nel mondiale di F.1. Le conseguenze del tracollo coinvolsero anche Hunt, il quale non temeva tanto di restare a piedi, bensì di non trovare una macchina all’altezza. Le prime offerte gli arrivarono da Lotus e Brabham, ma non furono molto convincenti. Se Colin Chapman patron di Ketteringham Hall non era disposto a sborsare molto, Bernie Ecclestone gli propose una monoposto del ’75; le nuove BT45 erano riservate a Reutemann e Pace, piloti ufficiali della Brabham. L’alternativa valida era costituita dalla McLaren griffata Marlboro dal momento che Emerson Fittipaldi non intendeva rinnovare il contratto, in quanto che mirava a creare una propria scuderia col fratello Wilson. Una confidenza che il brasiliano fece direttamente ad Hunt ancor prima che alla McLaren stessa. Trovatosi spiazzato, il team principal Teddy Mayer chiamò l’inglese e l’accordo venne raggiunto nel giro di una giornata, senza tralasciare anche i minimi particolari. Ad esempio, James fece togliere la clausola che lo costringeva ad indossare la divisa ufficiale della scuderia per una questione di principio:” Intendo poter fare ciò che voglio tutte le volte che posso. La vita è troppo breve per essere vincolata da regolamenti quando non è strettamente necessario.” Secondo l’Hunt-pensiero, portarsi dietro una giacca era inutile, perchè ripiegandola più volte nel metterla in valigia durante gli spostamenti, equivaleva a rovinarla ancor prima di averla indossata.  Qualcuno si chiese se che quel driver emergente fosse maturo per ereditare il volante di un due volte iridato come Fittipaldi. Ma quel suo primo successo reggendo bene gli assalti di Lauda l’aveva fatto crescere. Anni dopo Hunt spiegherà:” A Zandvoort avevo corso e vinto con un enorme pressione alle spalle. Fino ad allora il mio punto debole era riuscire a stare in testa mantenendo la concentrazione. Mi è servito a migliorare lo stile di guida più di qualunque altra cosa, ha completato la mia formazione dandomi la sensazione di poter essere al livello dei piloti migliori. Quando ti ritrovi tutti alle spalle, hai la concreta possibilità di imporre il ritmo. E ripensando alla prima Hesketh 308, di buon livello ma non competitiva come le vetture migliori, che dovevo spingere al limite per sfruttarla, mi è servita molto per fare esperienza. Una volta in McLaren – puntualizzerà Hunt – sapevo gestirmi da solo, che è quello che bisognava fare in quella squadra, dove non insegnavano nulla al pilota.” Il nuovo assunto era dunque pronto e le risposte agli scettici non tardarono ad arrivare, perchè James si sarebbe laureato Campione del Mondo. Una corona conquistata al termine di un appassionante duello contro il detentore del titolo, che ebbe il suo epilogo nel G.P. del Giappone al Fuji sotto il diluvio, domenica 24 ottobre. Una stagione dai due volti, dominata nella prima parte da Lauda sulla Ferrari 312T2 con cinque vittorie e tre podi: un ruolino di marcia che lo lanciò verso la riconferma sul trono.

Ma il 1 agosto nel corso del secondo giro del G.P. di Germania (10a prova) in programma sul temibile Nurburgring, Niki fu vittima di un gravissimo incidente che lo lasciò sospeso tra la vita e la morte per alcuni giorni. Hunt, che aveva riportato un’importante affermazione nella gara tedesca, apprese solo il giorno dopo delle gravissime condizioni del ferrarista. Non potendo che attendere il corso degli eventi, gli inviò un telegramma in cui lo esortava a combattere, a tenere duro in quanto conosceva la forza di volontà dell’austriaco:” Avrei voluto dargli una mano, o fare qualcosa. Per me era una situazione molto strana e poi quando si è saputo del miglioramento ho pensato che avrebbe dovuto prendersela comoda senza avere fretta.” Ma il ferrarista scalpitava e dopo poco meno di un mese tornò in pista nel G.P. d’Italia. Intanto Hunt aveva scalato la classifica diventando un serio candidato per la corona e a Monza si ritrovò nella fossa dei leoni. I giornali avevano pompato l’evento scatenando una crociata del popolo del Cavallino. E quella trasferta si confermò davvero amara per il britannico. Prese il via dal fondo insieme al compagno Jochen Mass e a John Watson (Penske-Ford), penalizzati per l’irregolarità delle benzine. Una corsa ad handicap che sarebbe terminata all’11esimo dei 52 passaggi previsti, con la McLaren in sabbia. Nel constatare che la vettura non aveva subito danni, il driver cercò di tornare al volante bloccato dai commissari coi quali nacque un battibecco. Il ritorno ai box di James fu una sorta di Via Crucis, fischiato ed irriso dai tifosi della rossa. Singolare il commento nel post-gara del britannico che parlò di scene patetiche:” Se mi giravo di scatto e ne guardavo uno intensamente facendogli “buh!” quello mi sorrideva tutto contrito e mi porgeva un pezzo di carta per aver l’autografo. Fui molto contento di potermene andare dall’Italia incolume, senza essere coinvolto in qualche rissa durante quel weekend.” A Monza, Lauda chiuse quarto guadagnando punti vitali, ma successivamente il suo rendimento calò. Incamerò solo 7 punti in 3 G.P., contro i 22 di James, vittorioso in Canada ed in Usa-Est. Si racconta che dopo l’affermazione di Watkins Glen, prima di partire alla volta del “Sol Levante”, il nostro eroe avesse passato alcune giornate insieme al connazionale Barry Sheene, campione motociclistico, sbronzandosi a più non posso. Alla vigilia del duello finale il vantaggio di Niki era di soli 3 punti: 68 a 65. Così mentre in Italia erano da poco passate le cinque, dall’altro capo del mondo la Formula Uno si apprestava a vivere l’ultimo atto sul circuito del Fuji, alle pendici del monte omonimo, un vulcano alto 3.776 metri ritenuto un luogo sacro per gli appartenenti alla religione scintoista. Era una sorta di sfida nella sfida, perché poneva di fronte due uomini profondamente divisi dal carattere e dalla filosofia di vita: metodico e calcolatore l’austriaco, esuberante e imprevedibile il britannico. Inevitabilmente la memoria andò indietro di un anno quando i due si erano misurati nella volata del G.P. d’Olanda con Niki che evitò la battaglia per vincere la guerra. Ma ora era diverso. Doveva il ferrarista attaccare per difendersi ed era pure stremato anche sotto il profilo psicologico. Una condizione non certo ideale, per affrontare il rush finale al contrario di Hunt, carico e sereno assistito da Alastair Caldwell il direttore tecnico della McLaren che lo isolò dai media al fine di evitargli tutte le pressioni del caso. Al termine delle qualifiche disputate sotto il sole, Mario Andretti era in pole seguito da Hunt secondo e Lauda terzo. Quand’ecco che entrò in gioco il meteo. Sin dalle prime luci dell’alba sul circuito si scaricò una pioggia sempre più violenta trasformatasi in un tifone che rese la pista inguidabile. Il warm-up si svolse regolarmente, con alcune monoposto che pur procedendo lentamente finirono in testa coda. Lauda completò un solo giro ed interpellò subito altri colleghi paventando la possibilità di non correre. Venne indetta una riunione col direttore di gara, dove si scontrarono i piloti che volevano l’annullamento della gara e quelli che intendevano partire. Una situazione delicata in cui Bernie Ecclestone, padrone della Brabham e già figura di vertice nel Circus giocò un ruolo decisivo. Per quel grande appuntamento, il futuro “Padrino” era riuscito ad avere per la prima volta un collegamento in diretta con l’Eurovisione e non poteva permettersi di bucare un evento così atteso. Ecclestone pur facendo presente che le condizioni erano pressoché impossibili, mise in guardia che a breve si sarebbe chiusa la finestra col satellite ed una mancata partenza avrebbe causato un’inadempienza contrattuale. Di conseguenza i team non avrebbero incassato alcun premio di partecipazione da parte dei promoter e sarebbero saltati pure gli introiti dei diritti televisivi: della serie ci perdiamo tutti un sacco di soldi. La soluzione era quella di prendere il via e rientrare ai box dopo aver percorso poche tornate, ottemperando così gli impegni assunti. Tutti erano d’accordo, pure lo stesso Hunt disposto a deporre le armi e consegnare il titolo al rivale, in nome della sicurezza. Un grande gesto di sportività, ben diverso da quanto si racconta in “Rush”.  Seguirono altri briefing fino a quando intorno alle 14.30 locali un uomo dell’organizzazione fece capolino tra i rivoltosi avvisandoli che stava facendosi buio e che se la corsa non fosse partita subito non si potevano disputare gli ultimi giri per mancanza di visibilità. Un danno non solo per il pubblico presente, ma pure le riprese televisive. Parole che fecero da prologo al via. Dal canto suo Lauda si sentiva al sicuro dopo quanto stabilito davanti ad Ecclestone, ma la vicenda avrebbe preso un corso differente. Daniele Audetto, direttore sportivo del Cavallino rivelerà dopo anni che Hunt, una volta tornato ai box, riferì la sua intenzione di ritirarsi dopo lo start a Caldwell, il quale s’inalberò minacciandolo di rovinargli la carriera. James trovandosi con le spalle al muro accettò gli ordini e con la partenza imminente non ebbe il tempo materiale di informare Niki. Una volta in pista, le vetture si mossero lentamente per il giro di ricognizione avvolte da nuvoloni d’acqua ed alle 15.09 scattò la corsa. Andretti fece pattinare le gomme venendo sorpreso da Hunt che prese il comando seguito da Watson. Lauda invece finì risucchiato dal gruppo retrocedendo in decima posizione e durante il secondo passaggio imboccò la pit-lane per fermarsi davanti al proprio box. Attorno alla rossa accorsero tecnici e meccanici, il pilota fece strani gesti e poi abbandonò l’abitacolo. Disse che non se la sentiva di continuare. Non a caso si parlò del “coraggio di avere paura.”. Intanto il G.P. andò avanti con Hunt capofila e per ironia della sorte a partire dal 24esimo giro la pioggia era calata fino a cessare del tutto. Una beffa per Lauda, che se fosse riuscito a resistere qualche passaggio in più avrebbe potuto difendere la corona. Il mondiale pareva quindi deciso, però al 62° passaggio James cominciò ad accusare problemi agli pneumatici venendo raggiunto e superato dagli inseguitori.

Un capovolgimento che riaccese le flebili speranze di Niki e che costrinse il pilota della McLaren a riparare ai box e poi ad una rimonta forsennata. Grazie alle nuove gomme inanellò una serie di sorpassi che gli fecero artigliare un sudato terzo posto e fare suo il mondiale per un solo punto. L’aspetto più curioso fu che l’unico in circuito a non aver capito di essere diventato Campione era proprio Hunt. Una volta sceso dalla M23 era furioso col suo box colpevole di non averlo informato sulla condizione delle gomme. Senza togliersi il casco lanciò improperi contro un Mayer allibito che era andato da lui per congratularsi. Solo dopo aver parlato con gli organizzatori ed aver visto l’ordine d’arrivo stampato si convinse del piazzamento. Il nuovo iridato iniziò a calmarsi durante i festeggiamenti di rito cominciati con una birra con i meccanici. Sembrerà paradossale, ma Hunt preferiva quella bevanda di gran lunga allo champagne, soprattutto se sorseggiata dopo una corsa per togliersi la sete. Dunque un’alba gloriosa per James e tragica per Niki, che venne criticato aspramente per quella resa in mondovisione. Ma se l’austriaco si sarebbe rapidamente riscattato, quel grigio giorno di ottobre avrebbe segnato l’apice della carriera del pilota anglosassone, che da li in avanti avrebbe imboccato lentamente il viale del tramonto. La conquista del titolo mondiale gli aveva portato sicuramente dei benefici, sotto l’aspetto sportivo ed economico, basti pensare che dalla McLaren ricevette un compenso cinque volte maggiore di quello iniziale. Al tempo stesso però la crescita vertiginosa della popolarità, mise a disagio Hunt che non sopportava alcuna invasione nella sua sfera personale. Trovava stressanti quelle continue conferenze stampa, le interviste e gli eventi ufficiali. Era uno scomodo rovescio della medaglia. Nel 1977 al volante della McLaren M26, Hunt cercò di respingere nuovamente l’assalto della Ferrari di Lauda. Scattò per dieci volte dalla prima fila e salì sul gradino più alto del podio in tre occasioni: a Silverstone, a Watkins Glen ed ancora al Fuji. Ma con quei 40 punti guadagnati non andò oltre al quinto posto nella graduatoria generale, staccato di ben 32 lunghezze da Lauda, ritornato Campione. James avrebbe corso un’altra stagione sulle monoposto bianco rosse, riportando solo un podio (terzo a Le Castellet) e chiudendo mestamente il campionato al 13esimo posto. Una stagione infelice in cui fu coinvolto nella tragica vicenda legata alla morte di Peterson, in seguito alla tremenda carambola avvenuta al via del Gran Premio d’Italia a Monza. Una brutta storia che inizialmente vide come imputato il giovane Riccardo Patrese accusato ed incriminato per aver innescato l’incidente con una manovra pericolosa. Paladini dell’accusa furono alcuni senatori del Circus, in particolare Lauda e lo stesso Hunt ed a Patrese venne vietato di partecipare al G.P. Usa Est. Successivamente a seguito delle indagini e di un’attenta visione delle riprese televisive il padovano sarà scagionato. Piuttosto emergerà che fu la McLaren di Hunt a stringere la traiettoria verso la Lotus di Peterson. L’inglese, che contribuì a soccorrere lo svedese tra le fiamme, giustificò quel cambio di direzione per il sopraggiungere di Patrese dalla destra. Un mistero tutt’ora irrisolto, ma che inevitabilmente avrebbe macchiato il curriculum di James. In vista del 1979, la mancanza di competitività della McLaren lo indusse a passare alla Wolf, ereditando il volante dell’amico Jody Scheckter, il combattivo sudafricano che aveva ribattezzato “Fletcher”, come il gabbiano protagonista del romanzo di Jonathan Livingstone; un volatile molto ansioso che temeva di volare precipitando ad ogni tentativo. Un dettaglio che la dice lunga sulla cultura e sulla sensibilità di Hunt. Purtroppo la scelta di accasarsi nel team canadese non si rivelò azzeccata. Dopo sette Gran Premi anonimi disse basta:” Correre in F.1 è estremamente pericoloso e guidare una vettura che non è competitiva non giustifica certi rischi.” Così si espresse, dopo aver constatato che la sua WR7 era un autentico flop. Uno come lui non poteva sopportare il ruolo di comparsa. Decise di non abbandonare completamente quel mondo che lo aveva visto protagonista e dove aveva molti supporters, divenendo commentatore televisivo per la BBC. I suoi pareri spesso pungenti non gli risparmiarono critiche catapultandolo al centro di numerose polemiche; ma il suo carattere di “bad boy” era risaputo.

Soltanto due giorni prima della morte era andata in onda dagli studi londinesi dell’emittente britannica la sua telecronaca del G.P. del Canada. Gli ultimi anni della sua vita, Hunt li trascorse dapprima a Marbella e poi nel sud di Londra, a Wimbledon in una bella casa dove viveva insieme ai suoi pappagalli che allevava con cura, altro aspetto curioso del personaggio. Come detto Hunt era un eterno playboy, vantando quel forte ascendente tipico degli antidivi. Intorno alla sua figura nacquero anche parecchie leggende intriganti come quella secondo cui dopo il trionfo del Fuji avesse avuto incontri galanti con ben 35 hostess di volo all’hotel Hilton di Tokyo: una dopo l’altra. Così come la voce che vuole James aver amato nella sua vita circa 5mila donne. Chiacchiere, fantasia? Chissà, nessuno ha mai potuto fornire conferme. Di sicuro i gossip contribuirono ad infarcire il mito di questo eroe del volante. Si era sposato una prima volta il 18 ottobre del 1974 con Suzy Miller, una bionda modella inglese molto avvenente di due anni più giovane. La cerimonia ebbe luogo in una chiesa cattolica di Brompton Road nel quartiere di Kensington in centro a Londra, alla presenza di alcuni amici e colleghi come Moss, Hill, Peterson, Hulme. Lui rigorosamente in frack e cilindro accanto a Lord Hesketh, attese all’entrata della chiesa la sposa vestita di bianco accompagnata dal padre, come da rituale. Riservata agli sposi, una lunga Rolls-Royce giallo-nera, recante sul radiatore l’orsetto mascotte della Hesketh che indossava la miniatura del casco di James. Un evento un po’ kitsch che venne immortalato da fotografi e televisioni. Peccato che quel matrimonio naufragò due anni dopo, con la signora Hunt pronta a consolarsi con l’attore Richard Burton che sposò soffiandolo a Liz Taylor. James convolò a nuove nozze il 17 dicembre del 1983 con Sarah Lomax, a Marlborough nel Wiltshire. Da questa relazione che durò un lustro nacquero due figli Tom e Freddie. Proprio Tom racconterà al tabloid “Mirror” che verso la metà degli anni ’80, mentre la coppia si trovava in Scozia, venne inseguita da un’auto della polizia per aver superato il limite di velocità. Anziché fermarsi, l’iridato accelerò in quanto aveva con se un notevole quantitativo di marjuana. Seppur braccato da tre pattuglie, James riuscì a seminarle. Dopo il secondo divorzio, Hunt si fidanzò con Helen Dyson conosciuta in un ristorante vicino alla sua casa di Wimbledon. Lei era più giovane di ben 18 anni e si sarebbe affermata in campo artistico come pittrice. Una presenza femminile che ridiede entusiasmo all’ex driver, che non conduceva una vita agiata complice i problemi finanziari e che ebbe anche disavventure con la giustizia. Nell’inverno del 1989 litigò con il buttafuori di un night club di Doncaster che non lo fece entrare in quanto non abbigliato a dovere. Nacque una zuffa, intervenne la polizia e James venne fermato per poi essere rilasciato su cauzione. Deciso a sposarsi per la terza volta, Hunt chiese la mano di Helen, ma il fatidico si non verrà mai pronunciato. Per un cinico scherzo del destino, Hunt si sarebbe spento il giorno successivo alla proposta di matrimonio. Era l’ultimo capitolo di un’esistenza vissuta intensamente senza compromessi, all’insegna del “carpe diem”. A trent’anni dalla sua scomparsa, il ricordo di James è ancora vivo tra gli appassionati ed evoca una certa nostalgia verso una F.1 che pare lontana anni luce da quella attuale.

 

Massimo Campi
Massimo Campihttp://www.motoremotion.it/
Perito meccanico, fotografo, giornalista, da oltre 40 anni nel mondo del motorsport. Collaborazioni con diverse testate e siti giornalistici del settore.

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