Personaggi

Published on Novembre 6th, 2022 | by Massimo Campi

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Mauro Forghieri: una vita da Genio.

 

Di Carlo Baffi

Mauro Forghieri, un’autentica leggenda del motorsport e basta! Un tecnico unico capace di creare vetture divenute pietre miliari non solo nella storia della Ferrari, grande amore della sua vita, bensì dell’automobilismo mondiale. Un uomo vulcanico, pragmatico e poliedrico la cui cultura spaziava a 360° non confinata solo all’universo di cilindri e pistoni. Nell’ambiente era noto col curioso soprannome di “Furia”, per via di quel carattere passionale che l’ha visto protagonista in accese discussioni ai box. Un personaggio che riusciva a fare gruppo tra piloti, tecnici e meccanici, cosa non certo facile. Tre componenti basilari per dare corpo ad una squadra granitica sia nei trionfi che nelle difficoltà, con lui che rappresentava sempre il punto di riferimento ed il filo diretto con Enzo Ferrari.

Il grande capo con cui sovente si esprimeva in dialetto modenese, soprattutto quando c’erano in ballo questioni importanti. Non mancò qualche contrasto data la forte personalità di entrambi, ma il rapporto fu sempre all’insegna della professionalità, della fiducia e dell’onestà reciproca. Ovviamente il capo era e restava il Drake, il quale però non gli fece mai mancare l’appoggio di fronte alle maestranze, ciò al fine di non screditarlo, condizione che avrebbe avuto conseguenze sulla gestione della squadra. L’aiuto del Commendatore andò anche oltre la sfera lavorativa rivelandosi fondamentale per Marco, il figlio di Forghieri, sofferente di una patologia cardiaca quando era in giovane età e che necessitava di un intervento chirurgico all’estero. Un gesto indimenticabile di rara umanità, ricambiato con una devozione assoluta. Non a caso, l’ingegnere soleva dire di essere il meno indicato per giudicare Enzo Ferrari, perché non avrebbe potuto che parlare bene. Forghieri s’è spento nella sua Modena (che il 13 gennaio scorso gli aveva conferito la cittadinanza onoraria) a 87 anni, lasciando un vuoto incolmabile non solo tra gli addetti ai lavori e gli appassionati, ma pure tra coloro che hanno avuto la fortuna di vivere gli anni d’oro del Cavallino.

Forghieri era una sorta di “deus ex machina”, che iniziò la sua carriera a Maranello sin da giovanissimo. Era nato il 13 gennaio del 1935 nel capoluogo emiliano, figlio di un meccanico specializzato, Reclus, che lavorò con Ferrari fin da prima della guerra quando realizzarono la mitica Alfetta 158. Varcò per la prima volta i cancelli della Ferrari nel ‘57 quando era ancora studente di ingegneria, per uno stage di un mese e mezzo. Passarono due anni, arrivò la laurea e pure l’assunzione. Inizialmente Forghieri lavorava allo sviluppo dei propulsori sotto la direzione di Carlo Chiti, il blasonato ingegnere pistoiese famoso per i suoi trascorsi in Alfa Romeo, ma alquanto accentratore, il che tarpava un po’ le ali al giovane tecnico. Nella sua biografia, Forghieri racconta che allora guadagnava 60 mila lire al mese, lavorando sabato, domenica e nelle feste comandate. Non certo il massimo, ma suo padre gli ripeteva di portare pazienza e quel consiglio fu molto proficuo. La svolta si materializzò il 31 ottobre 1961, un martedì, complice un ribaltone che sconquassò Maranello. Parliamo del defenestramento dello stesso Chiti e di altri dirigenti e tecnici, rei di aver scritto una lettera a Ferrari lamentandosi della presenza troppo invadente della moglie del Commendatore nella gestione della scuderia. Mossa non tollerata da patron Enzo, che definendola una “congiura di palazzo” fece piazza pulita promuovendo i caporali a generali e tra questi c’era proprio Forghieri. Persa la figura di Chiti, che non dimentichiamoci era stato il padre della 156 F1 la prima rossa con motore posteriore che dominò la stagione 1961, Ferrari decise di dare fiducia al giovane tecnico affidandogli la gestione del reparto corse, sia per le monoposto di Formula 1, che per le vetture Sport Prototipo. Mica poco. Più che un’investitura fu praticamente un’imposizione, che imbarazzò Forghieri, ma dall’altra parte la risposta fu categorica:” Fai il tuo mestiere che al resto ci penso io.” E così a soli 26 anni e senza esperienza, iniziò la grande avventura in rosso alla testa del Cavallino rampante reduce dai titoli in Formula Uno e nel Mondiale Sport.

I primi mesi lo videro impegnato nella messa a punto della Ferrari Gto, insieme a tecnici di indubbio valore quali Salvarani, Bellei, Maioli, Farina e Rocchi. Una peculiarità di Forghieri fu quella di circondarsi sempre di collaboratori capaci. Dopodichè iniziò a lavorare sulla monoposto di F.1, ma con l’ordine categorico del Drake:” Guai a toccare la 156. La macchina che vince non si cambia!” La prima vittoria nella categoria regina sotto la conduzione tecnica di Mauro Forghieri, andò in scena al G.P. di Germania grazie a John Surtees su una rinnovata 156, era il 4 agosto 1963. L’anno dopo il fuoriclasse inglese avrebbe portato il mondiale a Maranello. Sempre in quegli anni, il Cavallino continuò ad essere protagonista anche nel Mondiale Marche, malgrado l’agguerrita concorrenza del colosso Ford e della Porsche. Dalla matita di Forghieri nacque la 330P4, un prototipo spinto dal V12, che dominerà la 24 Ore di Daytona del 1967. Memorabile quell’arrivo in parata delle tre rosse che tagliarono il traguardo allineate orizzontalmente. Una trovata coreografica dell’allora direttore sportivo Franco Lini per celebrare il knock out rifilato al colosso di Detroit in casa sua. Una sorta di vendetta in risposta a quanto accaduto l’anno prima a Le Mans, quando le GT40 erano transitate vittoriose ed appaiate sotto la bandiera a scacchi. Altro capolavoro che prese corpo dal tecnigrafo dell’ingegnere modenese fu la 312T che riportò ai vertici del Circus la Ferrari a partire dalla metà degli anni ‘70. Dopo l’iride di Surtees, il Cavallino aveva vissuto anni difficili con i team d’oltre Manica che dettavano legge.

Da qui la decisione di concentrarsi solo su un unico fronte, la Formula Uno. Un’altra sfida che Forghieri affrontò senza batter ciglio, da cui emerse definitivamente la sua creatività. Tutto partì dalla 312PB, la dominatrice tra gli sport prototipi che nel 1973 chiuse il ciclo Ferrari nelle gare di durata. L’ingegnere modenese decise di comparare nella galleria del vento Mercedes di Stoccarda, sia questo modello che la 312B utilizzata nei Gran Premi: la prima dalle forme larghe per via delle ruote coperte, la seconda molto più stretta a sigaro come le altre rivali. Ebbene, dai primi dati emersi risultò una notevole differenza di carico con la “sport” decisamente più efficiente. Un elemento che spiazzò i tecnici, i quali si aspettavano maggiori performances dalla F.1. Ricevute le conferme dell’assoluta veridicità dei valori, Forghieri si concentrò sulla superficie dei fondi e capì che in quello della 312PB erano racchiusi i cosiddetti segreti del successo. Da qui iniziò la metamorfosi della F.1 le cui dimensioni vennero allargate e prese corpo la Ferrari “spazzaneve”, chiamata così per via delle singolari forme dell’avantreno. Un progetto figlio di una filosofia progettuale di rottura rispetto al passato, che cercò di avvicinarsi il più possibile alla 312PB grazie a delle pance laterali che permisero di dar vita ad un fondo più ampio in modo da aumentare il carico. Sebbene questa macchina non fu mai impiegata nei Gran Premi, ebbe l’importanza di essere la capostipite di un nuovo filone di modelli come la 312B3 madre della 312T e dei conseguenti aggiornamenti.

La 312B3 corse nel 1973 con riscontri deludenti, ma risolti i problemi di gioventù permise al Cavallino di giocarsi l’iride con Clay Regazzoni fino all’ultimo round nel campionato ’74, che fu appannaggio di Emerson Fittipaldi sulla McLaren-Cosworth per soli tre punti. Una doccia fredda per il popolo ferrarista che ebbe però il suo riscatto l’anno dopo con la marcia trionfale della sopracitata 312T. Una monoposto velocissima dotata di cambio trasversale, competitiva su tutte le piste che pareva confezionata su misura come un abito per Niki Lauda, il giovane fuoriclasse austriaco alla sua seconda stagione a Maranello. Cinque vittorie per lui ed una per il compagno Regazzoni, maturata a Monza il 7 settembre nel giorno cui Niki divenne Campione del Mondo, mettendo le mani su una corona che mancava da ben undici anni. Dopo l’arrivo trionfante delle due rosse, le telecamere indugiarono sul caloroso abbraccio tra il direttore sportivo Luca di Montezemolo e Forghieri: la snervante tensione era finita e poteva iniziare la festa. Anche la 312T2 sarebbe stata molto competitiva, ma nel ‘76 dovette inchinarsi alla McLaren di Hunt, complice il grave incidente patito da Lauda al Nurburgring. La rivincita fu immediata, nel 1977 e sempre grazie all’austriaco, risorto e determinato più di prima. Dopo un 1978 a secco, ecco che Forghieri creò una nuova arma micidiale dopo vari studi condotti in galleria del vento in base alle ricerche dell’ingegner Gian Franco Poncini: era la 312T4. Un modello che per via delle sue linee un po’ schiacciate venne soprannominata ironicamente la “ciabatta”, ma che una volta scesa in pista mise in riga la concorrenza. In quel 1979, il sudafricano Jody Scheckter divenne campione del mondo, precedendo il compagno Gilles Villeneuve e la Ferrari si impose pure nella classifica costruttori. Palcoscenico dell’incoronazione, fu ancora Monza, il 9 settembre. Con l’arrivo dell’era turbo, nata sulla scia della soluzione portata dalla Renault, Forghieri si rimise in gioco partorendo un’auto spinta da un propulsore sovralimentato. Nel 1981 fece il suo debutto ufficiale la 126CK che a Monte Carlo colse la sua prima affermazione con Villeneuve. Col passare del tempo, il turbo griffato Ferrari si dimostrò più efficiente e soprattutto più affidabile di quello francese. La nuova 126C2 schierata nella stagione 1982 si rivelò molto forte e nonostante la disgrazia legata a Villeneuve ed al grave incidente di Pironi, il Cavallino potè fregiarsi di un nuovo primato tra i costruttori. Un traguardo che venne bissato l’anno successivo con il modello 126C3, uno degli ultimi progettati da Forghieri.

Sul finire dell’84, il tecnico modenese si allontanò dalle competizioni per operare presso la Ferrari Engineering, una divisione staccata dal Reparto Corse e dedita alla ricerca di soluzioni innovative applicabili ai modelli stradali. Frutto di questo nuovo impegno sarà proprio l’ultima rossa firmata da Forghieri, la 408 4RM, la prima Ferrari a trazione integrale. Un prototipo di vettura sviluppato tra il 1987 ed il 1988, con un motore V8 di 4 litri da 300 cavalli, prodotto in due esemplari. Questa nuova creatura avrebbe chiuso la prestigiosa carriera di “Furia”a Maranello, con un bilancio forte di 4 titoli piloti, 7 tra i costruttori e 54 Gran Premi vinti. Senza contare i trionfi nell’Endurance (da Le Mans a Daytona), in F.2 e nelle corse in salita. Animato dalla solita voglia di mettersi alla prova, il tecnico approdò alla corte della Lamborghini per la quale progettò un nuovo 12 cilindri da 3500cc che avrebbe fatto il suo esordio in F.1 nel 1989 sulla Lola Larousse. Le interessanti prestazioni ottenute destarono l’attenzione di Ron Dennis, team boss della McLaren che pensò di equipaggiare la vettura di Ayrton Senna. Un’iniziativa che alla fine non si concretizzò, in quanto il manager inglese fece rotta sulla Peugeot attratto dalle allettanti offerte economiche. Quei V12 finirono così per equipaggiare nel 1990 le Lotus e la stagione dopo la Lambo 291 del Modena Team. Un’esperienza significativa che malauguratamente durò solo una stagione, ma che non frenò la passione e la voglia di Forghieri di introdurre nuovi concetti. Dopo un periodo tra il ’92 ed il ’94 trascorso come direttore tecnico della rinata Bugatti, il progettista emiliano venne coinvolto nella fondazione della Oral Engineering, un’azienda rivolta allo studio ed alla produzione di prototipi che andavano dalle varie componenti delle autovetture, alle moto da competizioni, dalle monoposto di F.1 fino alle barche. Insomma, l’ennesimo capitolo di una vita lavorativa che ci ha lasciato in eredità delle innovazioni applicate ad ogni settore di una vettura. Pensiamo al motore boxer di 12 cilindri a V impiegato dapprima sulla 312B e via via fino alla 312T4. Al cambio trasversale ed a quello elettronico; quest’ultimo fu il precursore dei dispositivi moderni. L’intento di Forghieri era quello di semplificare il compito del pilota evitandogli di togliere le mani dal volante per effettuare la cambiata con la classica leva. Ciò tramite l’introduzione di due pulsanti posizionati sulle razze del volante. Ovviamente il meccanismo era ancora rudimentale e la non perfetta efficienza non incontrò l’approvazione di Villeneuve. Il momentaneo accantonamento durò circa dieci anni, fino a quando il tecnico d’oltre Manica John Barnard lo rispolverò avvalendosi dell’elettronica che nel frattempo aveva fatto passi da gigante ed i bottoni erano stati sostituiti dai paddles dietro il volante. E dulcis in fundo, non potevano mancare pure i contributi in campo aerodinamico. Fu proprio Forghieri a concepire che l’applicazione di un’ala su una monoposto di F.1 avrebbe garantito rilevanti benefici nella percorrenza di un tornante.

Ed ecco che nel corso delle prove del Gran Premio del Belgio del 1968 a Spa, le 312 di Jacky Ickx e Chris Amon scesero in pista con alettoni montati sul retrotreno. Risultato, nonostante la pioggia le rosse dimostrarono di avere grip e volarono. Amon siglò la pole ed Ickx fu terzo alle spalle di Stewart, che si sarebbe laureato Campione del Mondo al volante della Tyrrell-Cosworth. Quella trovata originale venne immediatamente copiata dalla concorrenza e per il Circus rappresentò una nuova frontiera. Da li in avanti quel campo fu ampiamente sviluppato dalle scuderie inglesi, gli “assemblatori” come li chiamava il Drake, ma resta il fatto che quella magia avrebbe portato per sempre la firma di un tecnico italiano, Mauro Forghieri per l’appunto.

Immagini © Massimo Campi – illustrazione Carlo Baffi

 

 

 

 

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About the Author

Perito meccanico, fotografo, giornalista, da oltre 40 anni nel mondo del motorsport. Collaborazioni con diverse testate e siti giornalistici del settore.



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