3.4 C
Milano
martedì 14 Gennaio 2025

Pierre Levegh, ossessionato da Le Mans

Un uomo e la sua corsa, un ossessione per quella gara, stregata, fino alla fine.

 

Sabato 11 giugno 1955, una Mercedes 300 SLR impazzita vola tra la folla delle tribune di Le Mans. Esplode, come una bomba impazzita, i pezzi volano falciando vite umane. Il bilancio delle vittime lo farà diventare il più drammatico incidente nella storia del motorsport: 84 vittime ed oltre 120 feriti rimarranno tra le tribune della Sarthe.

La dinamica dell’incidente fu abbastanza particolare: sul rettilineo principale davanti alle tribune, Pierre Levegh seguiva la Jaguar D-Type di Mike Hawthorn, che era in testa alla corsa, quando questi sorpassò in doppiaggio la Austin-Healey guidata da Lance Macklin. Subito dopo la manovra, Hawthorn frenò all’improvviso per rientrare ai box, spostandosi sulla destra. La decelerazione di Hawthorn, la cui vettura disponeva di freni a disco più efficaci dei tamburi delle altre macchine, obbligò Macklin a spostarsi sulla sinistra, dove però stava sopraggiungendo a velocità molto più elevata la Mercedes di Levegh che tamponò la Austin di Macklin. La Mercedes fu proiettata in alto, schiantandosi sulla barriera che divideva la pista dalla tribuna, prendendo fuoco; alcuni pezzi dell’auto, il cofano, l’asse anteriore delle ruote, volarono sulla tribuna piombando violentemente sugli spettatori.

La domanda sorge spontanea: chi era Pierre Levegh e cosa ci faceva al volante della Mercedes 300 SLR come compagno di squadra di assi del volante del calibro di Manuel Fangio e Stirling Moss?

Levegh era un pilota di secondo piano, con l’ossessione di vincere la 24 di Le Mans. Nipote del pioniere francese Veghle, ne aveva assunto il nome anagrammandolo.

Aveva assistito, come tanti altri giovani, alla prima edizione della corsa, nel 1923, vinta dai due francesi André Lagache e René Leonard. Folla in delirio ed un grande colpo di fulmine per il giovane francese. Da quel giorno ebbe un solo scopo nella vita: vincere a Le Mans.

Alla gara della Sarthe non smise mai di andare, come spettatore. Con il susseguirsi delle edizioni della gara conosceva il circuito meglio di chi ci correva. La possibilità di partecipare come pilota arriva nel 1938: Antoine Lago, il progettista della Talbot, stava cercando un pilota da affiancare a Jean Trevoux. Si precipitò Levegh, ma l’illusione durò poco: la macchina dovette ritirarsi per guai meccanici, ancora prima che Pierre potesse prendere in mano il volante.

Per dieci anni la guerra paralizzò tutto e si dovette aspettare il 1949 per vedere nuovamente le vetture in pista a Le Mans, ma nessuno offrì una guida a Levegh, né quell’anno, né in quello successivo. Nel 1951 però la Talbot gli offrì nuovamente una possibilità. Eccola, l’occasione della sua vita. Pierre Levegh ha ormai 46 anni ed in coppia con René Marchand, ottenne un soddisfacente quarto posto.

Quel risultato non fece altro che peggiorare la sua ossessione. Sentiva che poteva fare molto di più, ma ci voleva una macchina giusta e soldi, tanti, per preparare il mezzo e disputare la corsa.

Acquistò una Talbot, spese una fortuna per cercare di realizzare il suo sogno, e si presentò al via alla edizione del 1952.

Charles Faroux , il direttore di gara, ed ideatore della maratona francese, abbassa la bandiera del via. C’è il sole , un bel tempo primaverile, cinquantasette vetture al via, Ferrari, Mercedes, Cunningham, Gordini, Jaguare   la Talbot-Lago Talbot di Levegh.

Dopo appena cinque ore di corsa, alle nove di sera, già diciassette vetture si erano ritirate. Primo, il francese Robert Manzon, su una Gordini. Secondo, sorprendentemente, Pierre Levegh. La folla è in estasi, due francesi al comando. Arriva il momento del rifornimento e del primo cambio con René Marchand, ma Levegh allontanò il compagno di squadra con un gesto. Voleva continuare lui, era in testa, era la sua gara!

Alle quattro meno un quarto di notte, la Gordini ebbe un improvviso problema ai freni e dovette ritirarsi. Levegh prese il comando, guidava ormai da dodici ore consecutive. Con una stupida ostinazione non volava mollare, non voleva più scendere da quella macchina, era la sua macchina, la sua gara, ma così facendo stava rischiando la vittoria. Doveva fermarsi, almeno per un’ora o due. Ma Levegh era irremovibile. Non ancora, non ancora. Allora la moglie pensò ad un trucco. La prossima fermata ai box gli avrebbe proposto di scendere un momento soltanto per prendersi una spremuta d’arancia. Marchand sarebbe stato pronto, lì dietro, già vestito; avrebbe approfittato dell’istante e sarebbe ripartito al suo posto. Levegh arrivò per il rifornimento di benzina. La moglie si avvicinò, premurosa, implorante, disperata. Ma Levegh disse quello che tutti avevano paura che dicesse: “Non scenderò. Non smetterò. Voglio guidare io, soltanto io. E’ la mia corsa. E’ la mia macchina”. E ripartì, nuovamente, sempre più ostinato, sempre più solo al comando, guidando quella Talbot come non aveva mai guidato!

La folla gridava il suo nome “Levegh…Levegh!” tutta la stampa presente si chiedeva chi fosse questo tenace pilota: da illustre sconosciuto era diventato l’eroe della corsa!

La Mercedes insegue, ma non riesce ad acchiappare la piccola Talbot Lago che fila come un orologio. Levegh non molla, anche con il buio, anche nella breve notte della Sarthe: è un automa al volante, vede solo la strada, vede la sua vittoria, il riscatto, il sogno della vita che si sta realizzando.

A metà mattina tornò al box per il rifornimento, ridotto ad un robot. Prese un sorso d’acqua minerale, ma lo sputò per timore che fosse avvelenato. Marchand tentò di salire sulla vettura con la forza, Levegh, inferocito, riuscì a respingerlo rabbiosamente, a ripartire, a mantenere il vantaggio sulle Mercedes.

A mezzogiorno, quando mancano solamente quattro ore alla fine della gara, solo diciannove vetture erano rimaste a lottare. Quando Levegh arriva ai box per il consueto rifornimento, la moglie scoppia in pianto. Non riusciva più a parlare, né a riconoscere alcuno. Solo una cosa gli era chiara: avrebbe continuato. E riprese la corsa.

Partì a tutta velocità, senza mai rallentare, anche se poteva, anzi avrebbe dovuto mantenere un ritmo più conservativo, sia per la sua guida che par la meccanica. Il vantaggio sulle Mercedes era più che sufficiente per vincere, dai box segnalarono di rallentare, ma ormai era in trance, un automa, solo con il pensiero della bandiera a scacchi davanti.

Negli ultimi barlumi di coscienza, cambiò marcia dalla quarta alla terza, ma sbagliò, infilò la seconda…e ruppe il motore. Mancava un’ora e mezza alla fine della gara. La Talbot ammutolita si fermò di lato, mentre la Mercedes di Lang prendeva il comando della 24 ore di Le Mans, andando a vincere la gara.

Una Mercedes ufficiale raccolse Levegh, più morto che vivo, ai bordi della strada tra Arnage e la Maison Blanche. Fu condotto al suo box dove imperava un silenzio ostile: la folla, che fino ad un momento prima lo osannava proprio per la sua impresa senza speranza, ora lo disprezzava per aver buttato al vento una vittoria francese già in tasca, per pura ostinazione, lasciandola in mano ai rivali tedeschi che riuscivano a cogliere il primo grande successo internazionale del dopo guerra.
L’unico a rimanere impressionato fu Alfred Neubauer, il boss della squadra tedesca. Si affacciò al box Talbot e gli disse: “Bravo, la prossima volta che la Mercedes parteciperà a Le Mans, tu guiderai una delle nostre macchine”.

Per i due anni successivi l’armata tedesca non corse a Le Mans. Si stavano organizzando per il grande ritorno in F.1 e nella gare di durata con la potentissima 300 SLR. Nel 1955 tutto era pronto: la vettura ed una squadra fatta con i migliori assi del volante: Manuel Fangio e Stirling Moss come prime guide, André Simon, John Fitch, Karl Kling, ossia un argentino, un britannico, un francese, un americano, un tedesco. Ma Neubauer non era uomo da dimenticarsi una promessa, e così si decise di contattare anche Pierre Levegh, facendolo diventare il simbolo di un’operazione di pubbliche relazioni davvero ben studiata: al francese che aveva quasi vinto Le Mans era offerta una macchina proprio dalla marca che si era avvantaggiata del suo ritiro per vincere, ed era anche una ottima pubblicità per le stelle a tre punte in terra francese.

Per Levegh, finalmente un’altra possibilità, a cinquant’anni, sulla macchina più veloce del momento. Ma subito, chi era a bordo pista, capì che qualcosa non stava funzionando. Fin dalle prime prove, fu chiaro che Levegh era intimorito dalla 300 SLR: era il più lento di tutta la squadra. E la situazione non migliorava con il passare dei giorni. Levegh era terrorizzato, e l’intero staff Mercedes ne era consapevole. Ma nessuno voleva rimangiarsi una promessa, e si contava sulla spontanea decisione del francese di lasciar perdere. La macchina era troppo al di sopra delle sue possibilità. Non si era tenuto però conto della sua immensa ostinazione, del suo orgoglio smisurato, e della sua ossessione.

Poi tutto successe in un attimo, con la Mercedes del francese che volava sulla testa della Austin Healey di Macklin. Centrò un pilone del tunnel pedonale a lato delle tribune, per poi disintegrarsi con due esplosioni finendo la sua folle e drammatica corsa tra la folla.

 

Massimo Campi
Massimo Campihttp://www.motoremotion.it/
Perito meccanico, fotografo, giornalista, da oltre 40 anni nel mondo del motorsport. Collaborazioni con diverse testate e siti giornalistici del settore.

ARTICOLI CORRELATI