Formula 1

Published on Novembre 12th, 2023 | by Massimo Campi

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Tocchiamo ferro!

 

Di Carlo Baffi

Viaggio attraverso riti, stravaganze ed amuleti per proteggersi dalla cattiva sorte in pista.

Interlagos, 5 novembre 2023, durante il giro di ricognizione Charles Leclerc partito dalla prima fila, finisce contro le barriere dopo sole quattro curve alla Ferradura. Probabilmente un guaio imputabile all’elettronica, o all’idraulica, ma di sicuro non al pilota che però si dispera via radio:” Ma perché sono così sfortunato?” Ed una volta davanti ai media aggiunge:” Quest’anno non è stato proprio fortunato per me – prosegue deluso il monegasco – forse un viaggio a Lourdes mi aiuterà.” In effetti se ripercorriamo gli anni del “Principino” a Maranello di episodi poco fortunati c’è un bel campionario, per cui la sua reazione a caldo è plausibile. Da qui però sorge una domanda, ma in uno sport come quello motoristico in cui dominano i numeri, la razionalità ed i piloti devono essere freddi calcolatori, la scaramanzia può trovare terreno fertile? La risposta è si, come nella vita comune ed in tutte le altre discipline sportive, in particolare dove i rischi sono elevati.

Numeri funesti – La storia dell’automobilismo sportivo è ricca di esempi riguardanti anche i maggiori assi del volante e altri illustri addetti ai lavori, in primis Enzo Ferrari. Il “Drake” infatti non negava di essere “un superstizioso, ma in modo generico”. Oltre a scrivere con l’inconfondibile inchiostro viola, il grande vecchio era infastidito dal numero 17. Pare fosse collegato ad alcuni tragici incidenti, tra cui quello del suo grande amico Ugo Sivocci, perito nelle prove del 1° G.P. d’Europa a Monza del ’23. Nel 1932, Tazio Nuvolari dopo aver trionfato nel G.P. di Monaco ricevette in dono da Gabriele D’annunzio una piccola tartaruga d’oro con la dedica “All’uomo più veloce l’animale più lento.” Da quel momento “il mantovano volante” non si separò più da quello che diventò ufficialmente non solo il suo portafortuna, ma pure il suo simbolo. Un altro caso emblematico riguarda Alberto Ascari, la cui superstizione divenne quasi ossessiva. Temeva i gatti neri da quando alla Mille Miglia del ’48 uno gli attraversò la strada e dopo qualche ora dovette ritirarsi. Quando correva indossava sempre casco e maglietta azzurri, talismani inseparabili. E poi c’era la numerologia. Il 13 era il giorno della sua nascita e di un suo incidente a Monza. Ascari crebbe nel mito di papà Antonio, grande campione degli anni venti, ma ne fu condizionato dalla morte improvvisa avvenuta in corsa nel 1925 a Monthlery. Nel 1955 “Ciccio” continuava a ripetere all’amico Gigi Villoresi:” Sono trent’anni che papà non c’è più, ho uno strano presentimento.” Proprio in quella stagione era scampato ad un terribile volo in mare durante il G.P. di Monaco sulla Lancia D50. Un guasto inspiegabile (qualcuno mise sott’accusa i freni) che scosse parecchio il pilota, non tanto per il “tuffo” nelle acque del porto a cui scampò, bensì per il presagio di una sorte infausta. A seguito di un serio incidente occorsogli negli anni precedenti, quando era impegnato nelle gare motociclistiche, Ascari s’era convinto di essere protetto da una buona stella. Non si considerava un pazzo del volante perchè sapeva valutare i pericoli, ma al tempo stesso sosteneva che ad ogni gara il destino sedeva sempre accanto al pilota. In quel 22 maggio, grazie al rapido sopraggiungere di un sommozzatore, “Ciccio” venne tratto in salvo, però una volta salito sulla barca dei soccorsi perse i sensi. Rinvenuto all’ospedale lamentava solo una contusione al naso, oltre al comprensibile choc. Prima di essere dimesso chiese a quel sommozzatore accorso in suo aiuto di reimmergersi e recuperare il suo inseparabile casco azzurro, ma ciò non fu possibile. Nei giorni successivi, tornato nella sua casa milanese di Corso Sempione, Alberto trovò pure il modo di scherzare coi giornalisti sull’episodio, sottolineando che se avesse letto il suo oroscopo avrebbe evitato di correre, facendo riferimento a quanto appreso dal vicino di letto nel corso della sua breve degenza monegasca. Conobbe infatti un radiocronista francese, che nel corso del G.P. era caduto nella sua postazione fratturandosi una gamba. L’elemento curioso era che costui aveva la stessa data e ora di nascita di Ascari. Dunque un giorno poco fortunato per i nati in quella costellazione. Il giovedì successivo il bi-campione milanese si recò nella sua amata Monza insieme all’amico Villoresi per assistere ai test della Ferrari 3000 Sport in vista del Gran Premio Supercortemaggiore. Rimasero per un po’ in tribuna, poi ecco che Alberto decise di fare un salto ai box per salutare l’amico e collega Eugenio Castellotti, ed una volta in corsia box gli chiese di poter salire sulla Rossa. Ovviamente si calò nell’abitacolo senza indossare i suoi abiti canonici, un’anomalia che colpì tutti presenti. Compì pochi giri e poi lo schianto fatale, le cui cause resteranno avvolte per sempre nel mistero. Una vita stroncata a soli 37 anni, la stessa età del padre. Il giorno era il 26, lo stesso del papà e multiplo di 13. Altra sequenza impressionante di numeri la troviamo nella tragica scomparsa di Lorenzo Bandini a Monaco. Carlo Cavicchi, autorevole firma in materia automobilistica, ricorda le parole drammatiche di Margherita Freddi moglie del compianto pilota emiliano, pronunciate all’epoca del terribile rogo. La signora affermò che in quella circostanza il numero 7 ricorse di continuo. L’incidente accadde il 7 maggio del 1967 alle 17 e 7 minuti, quando mancavano 17 giri dei 100 giri previsti. I soccorritori impiegarono 17 minuti per trasportare Lorenzo in ospedale, dove fu ricoverato nella stanza numero 7, in cui vi rimase per 72 ore prima di spirare. Il certificato di decesso emesso dall’Ospedale “Princess Grace” recava il numero 7747. Il defunto fu riportato a Milano, dove i coniugi Bandini risiedevano, col volo 607 su un Boeing 727. Il caso volle che non essendo pronta la tomba, la salma rimase presso il deposito del Cimitero Monumentale per 17 giorni, dopodiché venne sepolto presso il campo 7 nel loculo 7. Ma non è tutto. Bandini era alla sua 7a stagione in Ferrari, a Monte Carlo era risultato secondo in qualifica a 7 decimi dal Jack Brabham e la sua Ferrari portava il numero 18 (8 meno 1 fa 7). Per la signora Bandini, il sette divenne un vero e proprio incubo, al punto che nel libro scritto da Pier Attilio Trivulzio, giornalista ed amico di Lorenzo, quella cifra non sarebbe mai comparso, sia nella numerazione delle pagine che dei capitoli: meglio indicare il tutto con la dicitura bis aggiunta al numero recante il 6. Anni prima, in un’intervista televisiva, alla domanda se fosse superstizioso, Bandini rispose:” No, assolutamente. Perché ad essere superstiziosi non si vive in pace, specialmente se si corre in automobile.” Ed avrebbe poi aggiunto:” Penso che sia tutto un destino nella vita. Se uno deve morire un certo giorno, muore sia che corra in automobile, o che non corra.”

Presagio a colazione – Altra vicenda inquietante è quella legata alla morte del marchese spagnolo Alfonso De Portago alla Mille Miglia del 1957. Romolo Tavoni allora direttore sportivo della Ferrari, raccontò che durante la prima colazione insieme al coequipier Edmund Nelson, De Portago urtò il vassoio del cameriere facendo cadere a terra il the col latte ed il caffè. Un contrattempo banale, ma non per il pilota iberico, che sbiancò di colpo confessando che nella sua terra rovesciare il the col latte è un segno di malasorte. Consegnò quindi gli effetti personali a Tavoni, pregandolo di chiamare la moglie e non la madre, qualora si fosse fatto male. De Portago si avviò così alla partenza di quella che fu la sua ultima corsa. Presso l’abitato di Guidizzolo, vicino a Mantova, la sua Ferrari 355 S n°531 uscì di strada travolgendo parecchi spettatori. Si ipotizzò il cedimento di un pneumatico, di problema tecnico e anche di errore umano. Oltre agli occupanti della vettura, morirono 9 persone tra cui 5 bambini. Al di là dell’oscura premonizione però, potremmo anche chiederci se il pilota non corresse tranquillo, magari condizionato proprio da quanto accadutogli prima del via.

Amuleti e riti – Di una suggestione simile fu vittima, parecchi anni dopo, il messicano Pedro Rodriguez. Nel giorno della morte del fratello infatti, Pedro decise di infilarsi al dito l’anello del povero Ricardo. Si convinse che questo amuleto l’avrebbe salvaguardato da tutte le avversità. Il caso volle che nel 1971 durante uno scalo in America, Rodriguez dimenticò quel prezioso gioiello su un lavandino dopo essersi sciacquato le mani. Accortosi di ciò tornò indietro, ma l’anello era scomparso. Una perdita che iniziò ad angosciarlo. Ne fece allora realizzare una copia identica non badando a spese, ma pare che non avvertisse più la presenza protettrice di Ricardo. L’11 luglio di quello stesso anno, durante una competizione del campionato Interserie al Norisring in Germania, Pedro uscì di pista inspiegabilmente al volante di una Ferrari 512M e morì sul colpo. Era alla sua seconda corsa senza l’anello di Ricardo. Se in questo episodio il portafortuna era un anello, nel caso del grande Fangio era invece l’immagine della Vergine di Guadalupa. Per Villoresi era l’orologio del fratello Emilio deceduto a Monza, mentre per Franco Cortese erano i calzini giallo canarino. Il belga Willy Mairesse portava con se un’originalissima zampa di coniglio che lo protesse nei numerosi incidenti avuti in carriera; tant’è che morirà suicida in un hotel di Ostenda nel 1969, complice la depressione per l’impossibilità tornare a gareggiare dopo l’ennesimo schianto. L’americano Phil Hill gradiva essere innaffiato d’acqua prima della partenza. Tante scaramanzie che però non risultarono sempre infallibili. Si pensi a Luigi Musso, che prendeva il via indossando lo stesso set di guanti e occhiali che poteva porgergli solo la sua fidanzata, Fiamma Breschi. Eppure al pilota romano fu fatale un incidente a Reims nel G.P. di Francia del ’58. Il britannico Peter Collins pare non si separasse mai da una catenina d’oro di Louise Cordier; ma nel 1958, il suo cuore cessò di battere dopo essere finito fuori pista sul temibile Nurburgring.

Jella da Guinnes – C’è pure un caso limite, ovvero quello del neozelandese Chris Amon, scomparso nell’agosto del 2016 e che passò alla storia non solo per il suo talento, bensì per la sfortuna che lo accompagnò durante tutta la sua carriera in F.1. Nei prototipi invece si tolse non poche soddisfazioni. Un destino così avverso che indusse il collega Mario Andretti a commentare ironicamente:” Se Chris facesse il becchino, la gente smetterebbe di morire.” Amon detiene infatti un record particolare, ovvero quello di aver percorso in testa ai G.P. ben 851 km, senza mai salire sul gradino più alto del podio. Quando compì quarant’anni, Enzo Ferrari gli regalò una fotografia con tanto di dedica:” al pilota più bravo e più sfortunato.” Ad un certo punto della sua carriera, subentrò nel neozelandese una certa rassegnazione: fu dopo il G.P. di Francia del ’72. Ormai solo al comando fu bloccato dalla foratura di una gomma. Si convinse che non avrebbe mai vinto, perché sul più bello qualcosa si sarebbe rotto. Eppure, accettando questa amara realtà, Amon si ostinò sempre a dire che la rogna non esiste. Al contrario si reputò fortunato in quanto sopravvissuto ad un automobilismo dove le tragedie erano sempre dietro l’angolo.

La veggente – Da brividi la vicenda legata al François Cevert, perito in un cruento schianto in prova il 6 ottobre 1973 a Watkins Glen negli Stati Uniti. Erano in corso le prove e prima di scendere in pista, il transalpino si rivolse al suo meccanico Jo Ramirez dicendogli che avrebbe siglato un gran tempo. Era il suo giorno. Sottolineò che guidava la Tyrrell numero 6 col telaio 006, che aveva il motore Ford-Cosworth 66 e che quel giorno di ottobre era il proprio 6. Insomma, si sentiva baciato dalla fortuna. Ma c’è dell’altro. La sua storica fidanzata Anne Van Malderen, meglio nota come “Nanou”, raccontò che all’età di vent’anni aveva accompagnato la madre da una sensitiva, la quale dopo averla fissata le predisse che il suo matrimonio non sarebbe durato perché avrebbe incontrato un ragazzo in riva al mare con dei bellissimi occhi azzurri e con lui avrebbe vissuto anni felici. Era il 1959, la giovane si sposò ed ebbe un figlio, ma nel ’64 conobbe Cevert a Saint-Tropez e nacque una relazione intensa. Anne supportò la scalata del giovane pilota e condivise tanti sacrifici. Quando François decise di concorrere per il “Volante Shell”, “Nanou” ritornò dall’indovina curiosa di sapere il destino del suo amato. Le mostrò una foto e dopo un lungo silenzio si sentì dire che la prova sarebbe stata superata e seguita da una brillante carriera. Per contro il successo avrebbe separato i due e quel giovane non avrebbe raggiunto il trentesimo anno di età. Incuriosito da quelle parole, François volle conoscere l’autrice di quella sinistra rivelazione che gli venne ripetuta parola per parola. Cevert sdrammatizzò il tutto, dicendo che prima della fatidica data sarebbe diventato campione del mondo e così sarebbe morto all’apice della gloria. Malauguratamente la previsione si avverò pochi mesi prima del 30° compleanno del pilota francese.

Tempi moderni – Sebbene l’arrivo dell’elettronica prima e dell’informatica poi abbia cambiato radicalmente il volto delle corse, i drivers hanno sempre continuato ad incrociare le dita. Il freddo Niki Lauda, soprannominato “il pilota computer” e prototipo dei drivers moderni, si infilava una monetina in ogni dito dei suoi guanti. Un altro austriaco, Alexander Wurz era solito indossare una scarpa di colore rosso e l’altra di colore blu. Pare che questa usanza sia nata dopo che Wurz vinse una gara di F.3. Più bizzarre ed intime le scelte di David Coulthard e Felipe Massa. A detta di radio box, lo scozzese soleva indossare un paio di mutande nuove prima ogni G.P. Una decisione probabilmente adottata anche prima di salire sul jet privato che nel maggio del 2000 si schiantò in atterraggio all’aeroporto di Lione. Se i due piloti del velivolo non ebbero scampo, Coulthard uscì dalla fusoliera in fiamme, portando in salvo l’allora fidanzata Heidi. Felipe Massa invece, ha dichiarato di utilizzare lo stesso capo di biancheria intima per tutto il weekend di gara. Il sette volte iridato Michael Schumacher confessò che per un certo periodo salì in macchina sempre dallo stesso lato, il sinistro. Ma un giorno entrò da quello destro e non cambiò nulla. A scanso di equivoci però, il Kaiser teneva nella tasca della tuta una spazzola della bambola di sua figlia Gina Maria. Fernando Alonso, che detronizzò l’eptacampione tedesco, nel caso di un G.P. finito bene è solito prenotare lo stesso albergo e la stessa stanza l’anno successivo in occasione del medesimo evento.

Misteri della fede – Da un iridato all’altro ed eccoci a Sebastian Vettel, il quale si infilava sempre nella scarpa una medaglietta con l’effige di San Cristoforo, il patrono degli automobilisti. Riguardo al mitico Ayrton Senna non si parlò mai di rituali ed amuleti, però fu lo stesso fuoriclasse paulista a raccontare di parlare con Dio mentre era nell’abitacolo. Un po’ come un altro sudamericano, l’argentino Josè Froilan Gonzalez (protagonista del decennio tra il ’50 ed il ’60) , che durante le competizioni, continuava a raccomandare la sua incolumità a Santo Pedro.

Cavallino ko – Ci furono poi due episodi curiosi nel mondiale 2017 riguardanti la Ferrari. Al termine delle qualifiche del G.P. della Malesia, in cui Vettel aveva alzato bandiera bianca in Q1 per problemi tra compressore e motore termico, l’allora Team Principal Maurizio Arrivabene sentenziò:“ Personalmente non credo alla sfortuna, ma se dovesse esistere, allora sarebbe chiaro che con noi si sta impegnando moltissimo”. Guarda caso poco prima di quella gara, Raikkonen (compagno di Seb) fu vittima di un guasto tecnico che gli impedì di scattare dalla prima fila. E nel round successivo in Giappone, un problema ad una candela mise fuori causa Vettel in piena lotta per il titolo mondiale contro Lewis Hamilton. Beh, se un minimo sospetto non fece capolino nella mente di Arrivabene, di sicuro fece breccia in quella dei tifosi della Rossa.

Ciak, si gira – E’ indubbio che certe storie giunte fino ai giorni nostri, magari anche un po’ romanzate nel corso degli anni, abbiano contribuito ad aumentare il pathos e la leggenda delle corse. La scaramanzia è quindi dvenuta una costante nelle narrazioni e non poteva mancare anche nelle pellicole dedicate al motorsport. Nelle sequenze iniziali del celebre film “Gran Prix” diretto dall’americano John Frankenheimer nel 1966, uno dei piloti protagonisti Scott Stoddart, parla della sua passeggiata lungo la pista al mattino di ogni gara, confessando che era diventato un rito. Un momento di riflessione in cui raccoglieva i pensieri su come avrebbe affrontato la corsa.” Questa abitudine – spiega Stoddart mentre cammina in borghese lungo le stradine del Principato – l’ho presa da mio fratello Roger (anch’egli pilota). Il giorno in cui morì, chissà per quale ragione non aveva ispezionato il circuito… Forse sono un po’ superstizioso su questo fatto.” Il destino vorrà che proprio nel Gran Premio monegasco, Stoddart sarà vittima di un tremendo schianto, in cui resterà seriamente ferito, ma vivo per miracolo.

A mente fredda – In conclusione, tutti gli episodi testé citati sono  un risvolto del lato umano, in cui la paura che qualcosa vada storto è un qualcosa di irrazionale che alberga in ognuno di noi in maniera più o meno insistente. Da qui l’affidarsi ad oggetti, o gestualità che aiutano, o forse illudono, che alla fine andrà tutto bene. Occorre però fare attenzione che questa tendenza non si trasformi in ossessione, finendo per condizionare psicologicamente un individuo. Ciò andrebbe a scapito della lucidità e della capacità di agire seguendo la logica. E quando si viaggia ad oltre 300 orari occorre stare parecchio in guardia.

 

 

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About the Author

Perito meccanico, fotografo, giornalista, da oltre 40 anni nel mondo del motorsport. Collaborazioni con diverse testate e siti giornalistici del settore.



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