Storia

Published on Dicembre 19th, 2018 | by Massimo Campi

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Romolo Tavoni ed i giovani piloti del 1958

Mike Hawthorn vince il titolo mondiale, ma per la Ferrari è una stagione di grandi dolori, i racconti di Romolo Tavoni

Stagione 1958, la Ferrari schiera una squadra di giovani rampanti, motivati, ha in lotta tra loro per il predominio con la monoposto equipaggiata dal V6 Dino di 2,4 litri. È la 246 F.1, monta il motore derivato da quello della F.2 di 1,5 litri del 1957 ed ha le sospensioni anteriori con i freni a disco. La scuderia del cavallino rampante vuole tornare ai vertici, dopo i mondiali di Ascari, il mondiale vinto da Fangio nel 1956, ed il campione argentino che ha vinto l’ultimo titolo nel 1957 con la rivale Maserati. A Maranello il Drake vuole solo giovani, motivati, aggressivi, che si riveleranno ben presto in lotta tra loro per la supremazia nella squadra. La Ferrari esce da un 1957 problematico e con due drammi pesanti: Castellotti, la giovane promessa, bello, giovane e ricco che si infrange sulla tribunetta dell’autodromo di Modena durante una sessione di prove. Alfonso De Portago, che esce di strada durante la Mille Miglia a Guidizzolo con la sua Ferrari 335S, morendo sul colpo assieme al copilota Edmund Nelson, falciando nella folle corsa nove spettatori tra cui cinque bambini. A Maranello urge il riscatto, gli inglesi premono con le loro nuove monoposto a motore posteriore, ma per la Ferrari corrono alcuni tra i migliori piloti del momento. Sarà una stagione piena di emozioni, gioie e drammi che si concluderà con il titolo mondiale per Mike Hawthorn, ma anche i drammi di Musso, che muore a Reims mentre stava inseguendo Hawthorn e Collins che scompare in agosto al Nurburgring. Per la Ferrari, oltre a Mike Hawthorn, con la monoposto corrono Luigi Musso, Peter Collins, Harry Shell, Phil Hill, Von Trips ed Olivier Gendebien.

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Romolo Tavoni è il direttore sportivo della squadra e sono i suoi ricordi di quei ragazzi che ci riportano a quella stagione di sessanta anni fa.

“Il rapporto tra il direttore sportivo ed i piloti è complesso e semplice al contempo. Innanzitutto devi essere creduto per ciò che fai e che dici, creduto da tutti, piloti, tecnici, meccanici ed organizzatori. Ho sempre cercato di essere franco con i piloti ed ho notato che pian piano mi credevano e lo sentivo dai rapporti che avevano con me, perché poi si confidavano. Devi fargli capire che conta la squadra e non i piloti, li devi convincere che devono fare il gioco di squadra e non solo quello individuale. Il direttore sportivo deve essere un responsabile con il rispetto alla giusta aspirazione ed al giusto valore dell’individuo. Nel 1958 i principali piloti erano Mike Hawthorn, Peter Collins e Luigi Musso. Tre ragazzi che hanno corso assieme, spesso confrontandosi per primeggiare all’interno della squadra. Hawthorn è stato il pilota che più mi ha entusiasmato nei miei anni come direttore sportivo. Nel ‘57 avevo Musso, nel ‘58 Hawthorn, ed avevamo quasi un impegno morale di vincere un campionato con l’italiano.

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I vecchi meccanici della Ferrari dicevano che Musso, quando era in giornata guidava come Varzi, cioè se doveva passare a 10 cm dall’erba per essere più veloci, Luigi ci riusciva costantemente ad ogni giro. Andava in macchina e guidava con grande scioltezza e precisione, quando scendeva aveva appena bagnato di sudore la schiena. Hawthorn guidava con il giubbino verde ed il papillon, si impegnava, aveva un rene solo a causa di un incidente in guerra. Era in aviazione, cadde con il suo aereo, si salvò per miracolo, ma gli dovettero asportare un rene. Musso era tipicamente italiano, gran signore, gran generosità, grande simpatia, soffriva Hawthorn che nelle gare veloci e nei tracciati veloci mostrava una sensibilità maggiore. Hawthorn saliva sulla vettura, faceva tre giri, si fermava e ti diceva le precise condizioni della macchina “il motore è come l’ultima volta che abbiamo provato, il cambio però ha bisogno di una controllata al sincronizzatore della terza, invece dobbiamo cambiare la taratura degli ammortizzatori. Le gomme, contro ogni logica le voglio con due decimi di atmosfera in meno, almeno appoggiano di più sui curvoni” allora andavamo da quelli delle gomme e gli spiegavamo le richieste di Hawthorn “non fatelo, le gomme scaldano di più” rispondeva il fornitore. Successiva riunione tecnica con Hawthorn e gli spiegavamo che in quel modo si rischiava il dechappamento della gomma ed allora bisognava lavorare sugli ammortizzatori, ma indurendoli si incontravano dei problemi di saltellamento in entrata in curva. L’inglese ci pensava un po’ e poi diceva “vada per gli ammortizzatori, se saltella chiudo prima la curva e mi arrangio io” andava su in pista, chiudeva prima la curva, rasentava l’erba, poi la macchina faceva un salto, si spostava di un metro ma le gomme rimanevano in appoggio, ed Hawthorn faceva il tempo. Aveva una grande sensibilità, ma riusciva anche a ragionare con la tecnica. Ci voleva tanto pelo sullo stomaco, in piste come Reims o Spa, con curvoni che si affrontavano, in entrata, a 180 all’ora e all’esterno c’erano piante o pali della luce. I tanti incidenti di allora avevano un perché, avevano una ragione, non si parlava ancora di sicurezza delle piste. Hawthorn, quando vinceva, alla sera invitava Tony Vanderwell, e gli diceva “caro Tony, io non sono un tuo pilota perché tu hai dei piloti bravi, ma io gli do la paga, vieni a festeggiare con me così impara Moss a volere quello che vuole” Con Vanderwell correva Moss, che aveva tutto, ma nel 1958 ha perso perché ha dovuto dividere i punti delle gare. Moss non è stato campione del mondo per colpa sua, perché con la Vanwall era velocissimo, ci dava un secondo al giro. Allora Hawthorn, quando vinceva invitava Vanderwell a fare baldoria, e l’invito era corrisposto quando vinceva la Vanwall. Insomma Hawthorn amava fare baldoria, ma noi gli dicevamo di farla fino al martedì, poi doveva essere efficiente per la gara della domenica successiva. Lui comunque, con un sorriso, ci rispondeva “Tavoni, life is short!” la vita è breve, “la devo vivere, la vita va vissuta Tavoni”. Questo era l’uomo Hawthorn.

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Peter Collins era un gran signore, di buona famiglia, proprietario di aziende in Inghilterra, entusiasta della vita, amante delle corse. Era entrato nella stima di Ferrari perché aveva avuto dei gesti di affetto verso gli ultimi momenti di Dino. Di pomeriggio passeggiava con lui all’ombra del piazzale e non lo aveva fatto per farsi vedere da Ferrari, ma perché gli piaceva parlare con lui. Era un ragazzo molto cordiale, era il vero gentiluomo inglese. Non lo ho mai sentito alzare la voce, neanche una volta. Voleva essere informato ma non ha mai fatto nessuna richiesta fuori dalla norma. Era una brava persona e soprattutto era impegnato verso la squadra, sapeva fare il gioco di squadra e fare trionfare il nome della Ferrari. Diceva “noi in Inghilterra abbiamo tanti costruttori, Aston Martin, Jaguar, Lotus, ma non siamo stati sufficientemente apprezzati ed alla fine abbiamo trovato l’ospitalità di Enzo Ferrari!” Collins era un tipo simpatico, estroverso, un gran signore. Si era innamorato ed aveva sposato Louise Cordier, una attrice di prosa della compagnia di Peter Ustinoff. Lei faceva teatro, e come tutte le attrici di teatro viveva di notte. Anche Collins si adattava a questa vita, un genere di vita che faceva a cazzotti con la vita di pilota che deve essere regolare ed ordinata, ed il rendimento di Collins ne ha risentito. Lo stesso problema lo aveva Eugenio Castellotti, che si era innamorato con Delia Scala.

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Hawthorn era lo stravagante, l’uomo che aveva bisogno di vivere, Collins invece era più il gentiluomo inglese, anche se quando c’era da divertirsi non si tirava certo indietro, ma lo faceva sempre con stile. Collins aveva un limite, imposto da se stesso e dalla sua educazione, Hawthorn no, se per caso entrava in un albergo e magari trovava due hostess, le guardava le salutava e con fare tipicamente inglese le diceva “quando avete finito le vostre faccende, se volete potete volare basse, in qual caso contate di volare su di me!”

Ho un grande ricordo di Luigi Musso. Una guida molto fluida, regolare, fantastica. Un grande collaudatore. Ogni sua analisi tecnica era precisa e sapeva dare delle valide indicazioni per la messa a punto e lo sviluppo di ogni vettura. Era romano, ed a volte sembrava che vivesse in una atmosfera di dolce vita, le sue motivazioni erano incostanti, praticamente andava alla giornata, soprattutto quando c’erano i test da fare. Arrivava al mattino sul circuito, se era carico ed aveva dormito bene non ce n’era per nessuno. Casco in testa, si infilava nella vettura e via a macinare chilometri ed a dare indicazioni per la messa a punto. Magari il giorno dopo arrivava, ti guardava e con aria assonnata replicava:” Tavoni, faccia provare la macchina ad Hawthorn o a Collins che hanno voglia di girare, a Roma a quest’ora si fa la pennichella, non ho voglia di girare, magari dopo”. Poi quando lo convincevo a salire in macchina faceva un paio di giri viaggiando magari cinque secondi più lento dei suoi compagni. La sera dovevo relazionare a Ferrari che andava su tutte le furie, non riusciva a capire la differenza di prestazioni tra le sue macchine. Questo era l’uomo, incostante ma fortissimo quando era in giornata. Luigi Musso in alcuni casi era una specie di riferimento anche per Mike Hawthorn. “Sono stato dietro a Musso per un paio di giri, lui mi dà dieci metri in accelerazione. Vuole dire che il suo motore va più del mio, perché è impossibile che Luigi acceleri prima di me. Ci sono almeno quattordici-quindici cavalli di differenza.” Io mi arrovellavo, era impossibile che i motori fossero differenti. Poi, a casa, mettevamo sul banco i due motori e Hawthorn aveva centrato in pieno i valori, c’era proprio quella differenza!. L’affiatamento con Musso fu subito dalla prima gara. Venni mandato a dirigerlo a Siracusa, dove lui correva con una nostra vettura di F.2. Musso, partiva in terza fila e mi chiese di segnalargli costantemente il distacco di quello dietro “tanto quelli davanti li vedo” affermò, ed il distacco dal primo. Lo guidai per tutta la gara, una gara che vinse. Era in giornata, e da allora ci fu una grande affiatamento tra noi due. Maurice Trintignant era il più simpatico, un gentiluomo, il più amabile dei piloti francesi. Era un capo scuola in mezzo ai piloti di allora, molto stimato. Era un pilota che sapeva anche vincere. Era ben voluto, con le sport faceva coppia con chiunque, sapeva anche risparmiare la vettura e consegnarla in ordine al suo compagno. Harry Shell era l’americano con la cultura del napoletano. Era un commerciante nato, avrebbe venduto di tutto. Entrò nel mondo delle corse in compagnia di De Portago, entrambi amanti del lusso, velocità le donne. Si presentava sempre accompagnato da bellissime ragazze e mi diceva “le loro famiglie, tutte aristocratiche di Oxford, mi hanno detto di portarle in società, quindi fatemi un piacere: se ci dovete andare a letto prima avvertitemi”. Bravo pilota comunque.

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Olivier Gendebien, il visconte delle Ardenne, in guerra faceva parte delle squadre dei guastatori e si era paracadutato dietro le linee nemiche, era stato un eroe di guerra. Era imparentato con la reale casa del Belgio. Era imbattibile sulle vetture a ruote coperte, per lui era sempre pronta una berlina o una sport sperimentale, con le monoposto era un buon pilota ma non aveva le qualità di Phil Hill, di Von Trips, Collins, Musso etc. come persona era un nobile, ma alcune volte fare il nobile con i modenesi non è semplice e spesso doveva stare attento ai suoi atteggiamenti.

Volfgang Von Trips è stato il più grande pilota tedesco del primo dopoguerra. Era un signore, di nascita era un signore, era un conte imperiale. Il padre con l’avvento del Nazismo scappò via, avevano castelli e tenute, e dovettero scappare via lasciando tutto, si rifugiarono in Svizzera. Il padre dovette fare il commesso in banca e poterono rientrare in patria solo dopo la fine della guerra e la sconfitta del Nazismo. Von Trips cominciò a correre con Von Hainsten, che era nazista, e per correre si faceva dare il 10% dai piloti se volevano correre. Von Trips non ci si fece piegare, disse che non era giusto che Von Hainsten fosse il loro capo e rinunciò a correre con i tedeschi, fu un atto di coerenza.

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Phil Hill, l’americano più grande che abbia mai corso con una Ferrari. Era velocissimo. Phil Hill nasce sulle vetture sport ed il giorno che arriva a correre sulle monoposto diventa un campione. Solo allora si è capito il suo valore come pilota. Era anche simpatico ed estroverso sempre corretto nei rapporti. Se ti doveva dire una cosa te la diceva tranquillamente in faccia, amava i rapporti corretti e sinceri. Phil era uno di quei piloti che amano la velocità, le forti velocità. Dava il meglio di se stesso sui tracciati con i curvoni da oltre 200 all’ora. Sui circuiti dove bisognava avere del pelo sullo stomaco per tenere giù il piede in curva. A Monza, a Spa, i circuiti della velocità per eccellenza, si inebriava. Tra Phil Hill, Mino Amorotti e me, c’era un gran feeling, tanto che gli insegnammo anche a parlare in modenese. Avevamo, già allora, tutta la stampa addosso. Ogni volta che Hill si fermava, attorno alla vettura c’era un capannello di giornalisti, ed allora i box erano all’aperto e non si poteva nascondere le vetture come si fa ora dentro i box con le serrande. Avevamo catechizzato Hill: se la macchina andava bene doveva dire “a sam a post” quando scendeva dalla vettura. Una volta, siamo a Rouen, si ferma con un buco nel monoblocco e olio che scende a fiumi per terra. I giornalisti si avvicinano, lui, impassibile mi guarda, tira via il casco e, con aria furba mi urla “a sam a post!”. La reazione dei giornalisti fu istantanea: “ma gli avete fatto imparare anche a lui a dire le bugie?”

 

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About the Author

Perito meccanico, fotografo, giornalista, da oltre 40 anni nel mondo del motorsport. Collaborazioni con diverse testate e siti giornalistici del settore.



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