Storia

Published on Agosto 2nd, 2016 | by Massimo Campi

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Tre litri per la Formula Uno

Nel 1966 la Formula Uno cambia regolamento tecnico con i motori di tre litri

Era durato cinque anni il regolamento tecnico della massima formula con i motori di 1,5 litri, introdotto nel 1961 per ridurre le prestazioni delle monoposto. Un regolamento che ha favorito soprattutto i costruttori inglesi, l’introduzione del motore posteriore su tutte le monoposto ed uno sviluppo tecnico dei telai, sempre più bassi, leggeri ed affusolati per sfruttare la poca potenza dei motori. Ma le monoposto della massima formula non erano più attraenti rispetto ai grossi prototipi delle gare di durata, come le Ferrari P2 e le Ford GT40, vetture potenti con i motori che avevano cilindrate mostruose, e potenze che superavano i 400 cv. Ci voleva una svolta tecnica per rendere la massima formula più prestazionale e selettiva, per rendere lo spettacolo più appetibile al pubblico che vedeva nell’automobilismo la massima formula tecnologica dell’epoca.

Con l’introduzione di motori di tre litri molti costruttori si trovarono spiazzati, soprattutto gli inglesi che non avevano una grande tradizione motoristica e le loro case costruttrici, come Brabham, Lotus, Cooper, erano più degli assemblatori di vari pezzi meccanici che veri costruttori. Le potenze erano destinate a salire, generalmente raddoppiavano arrivando ai teorici 400 cv con relativi problemi per scaricarla a terra.

La stagione europea della massima formula iniziava con il GP di Siracusa, una delle tante gare fuori campionato e subito ci si accorse che i costruttori non erano ancora pronti al nuovo regolamento tecnico. Lotus e Brabham si presentarono inizialmente al via con vecchi quattro cilindri Climax, risalenti alla fine degli anni ’50, con la cilindrata portata al limite di 2,7 litri. La Ferrari sembrava la più pronta, con in V12 preso in prestito dal prototipo 330P completo di cambio. Un motore bialbero a camme in testa e due valvole per cilindro con una discreta potenza di 360 cv, ma anche un grande peso che gravava sull’assetto della monoposto soprattutto nei tracciati lenti e tortuosi. Partendo da quella base l’ing. Forghieri sviluppò in seguito il propulsore introducendo le tre valvole per cilindro, ed alla fine della sua carriera, nel 1969, il V12 aveva una testata a quattro valvole, doppio albero a camme in testa ed una potenza di 420 cv.

La Cooper invece si rivolse alla Maserati che riesumò il V12 della 250F, la monoposto mondiale con Fangio negli anni ’50. Il 12 cilindri dell’Ing Alfieri aveva ancora una buona efficienza termica, testate bialbero e con sole due valvole per cilindro atteneva una potenza di 360 cv, in linea con il Ferrari e superiore ai motori inglesi. La Cooper però era una squadra ormai in declino ed il telaio non consentiva ai piloti di scaricare a terra tutta la potenza con conseguenti risultati. Il V12 modenese consentì comunque alla gloriosa squadra inglese di ottenere le ultime vittorie della carriera. Venne anche ridisegnato con testate a tre valvole più strette ed un monoblocco alleggerito, ma ormai la Cooper era al tramonto e non riuscì a capitalizzare il potenziale meccanico del propulsore italiano.

La Honda si buttò nel nuovo regolamento tecnico e nel corso della stagione fece debuttare il suo V12, teoricamente il più potente del lotto con oltre 390 cv dichiarati. Il propulsore giapponese era però molto più lungo rispetto alla concorrenza, con la distribuzione a metà bancata, come nelle moto e non di lato come tutte le altre unità della massima formula. Ingombri, peso e difficoltà nella messa a punto e problemi telaistici ridussero il potenziale dei giapponesi che conquistarono comunque la vittoria a Monza con John Surtees, quando l’asso inglese convinse la squadra nipponica ad utilizzare un nuovo telaio, costruito dalla Lola per Indianapolis, al posto di quello Honda. I tecnici giapponesi svilupparono anche un nuovo motore, 8 cilindri raffreddato ad aria, montato su un telaio leggerissimo in magnesio, la RA302. Surtees si rifiutò di correre con quella vettura, ingaggiarono Jo Schlesser per il GP di Francia, a Rouen nel 1968.  Il pilota transalpino, rimase coinvolto in un incidente all’inizio del terzo giro schiantandosi con la sua vettura alla curva Six Fréres e morì nel furioso incendio che ne scaturì, alimentato dal pieno di carburante e dalla struttura in magnesio del telaio ed il coraggioso progetto Honda vide immediatamente la fine.

La ricerca di nuovi propulsori per la Formula Uno vide impegnati anche la BRM e la Weslake. Colin Chapman si rivolse alla BRM per equipaggiare la sua Lotus 43, ed i tecnici inglesi, da sempre alla ricerca della massima potenza realizzarono un complicato e mostruoso H16 ottenuto da due motori ad 8 cilindri piatti e sovrapposti con in mezzo l’albero motore. L’H16 produceva più vibrazioni che cavalli con conseguenti ritiri dovuti a problemi meccanici. Solo la grande classe di Jim Clark riuscì a compiere la grande impresa con la vittoria, sempre nel 1966 a Watkins Glen. Nel 1967 venne abbandonato per un nuovo V12.

La Eagle di Dan Gurney commissionò a Weslake, un tecnico inglese ex Jaguar un V12 bialbero a quattro valvole per cilindro. Harry Weslake realizzò, con l’aiuto di altri tecnici provenienti dalla BRM una unità che erogava oltre 390 cv, il top della categoria nel 1966, ma era anche molto fragile e generalmente dopo pochi giri le Eagle erano già ferme con la meccanica a pezzi. Una delle poche volte che riuscì a concludere una gara si impose, con il pilota americano a Spa nel 1967.

Chi invece dimostrò di avere imboccato la strada giusta, nel corso della stagione, fu Jack Brabham. Appoggiandosi all’australiana Repco, che già revisionava i suoi motori nelle gare della Tasman Cup, ricavò il propulsore delle sue monoposto da un blocco di serie V8 americano. La Repco rifece l’imbiellaggio, alleggerì il monoblocco, fece le testate monoalbero con la distribuzione a bilancere. Un motore semplice, piuttosto spartano, con una potenza inizialmente inferiore ai 300 cv, ma robusto ed affidabile che permise a Black Jack la conquista del titolo mondiale ed a Denny Hulme di bissare il successo della Brabham. La filosofia costruttiva di Ron Tauranac, socio e tuttofare tecnico del campione australiano, era quella della semplicità ed affidabilità meccanica: meglio avere poca potenza e scaricarla tutta a terra che molta potenza dalla difficile erogazione. Tauranac realizza un telaio in tubi, molto semplice ma robusto, il motore australiano è molto sfruttabile e mentre la concorrenza insegue le potenze sempre più elevate, spesso a discapito della affidabilità, Sir Jack, sfruttando anche la sua grande esperienza, conquista la vetta della classifica mondiale.

Con l’aumento delle potenze ci si pose il problema di come scaricarle a terra. Diversi guardarono alle quattro ruote motrici come soluzione, ma gli esperimenti fatti furono fallimentari. Problemi di trazione, di guidabilità, un grosso aggravio di peso ed un grande assorbimento di potenza sconsigliarono di seguire la strada.

Infine, Mike Costin e Keith Duckworth due tecnici, fondatori della Cosworth con i finanziamenti della Ford e la committenza della Lotus, misero assieme due bancate del loro quattro cilindri FVA di F.2, un motore derivato dal Ford Kent di serie e nacque il Ford-Coswort DFV un motore studiato appositamente per la Formula Uno. Il debutto avvenne nel 1967, subito pole position con Hill e vittoria con Clark. il Double Four Valvle, 8V a 90 gradi, bialbero quattro valvole, era un propulsore più stretto rispetto ai V12 60 gradi, più leggero, e con consumi inferiori rispetto alla concorrenza. Altro vantaggio aveva una struttura portante e poteva fungere da elemento del telaio semplificando la costruzione delle vetture. La potenza inizialmente era di 400 cv, aveva un costo accessibile ed inferiore rispetto agli altri propulsori. Con il Cosworth nascono tanti costruttori, o assemblatori, soprattutto in Inghilterra. Uniche eccezioni la Ferrari, la BRM e la Matra. Il Cosworth DFV ben presto monopolizzò tutta la Formula Uno per oltre un decennio vincendo 155 Gran Premi, 12 campionati del mondo piloti e 10 campionati del mondo costruttori.

Foto Massimo Campi

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About the Author

Perito meccanico, fotografo, giornalista, da oltre 40 anni nel mondo del motorsport. Collaborazioni con diverse testate e siti giornalistici del settore.



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